La disumanità dell'uomo non si materializza soltanto negli atti corrosivi dei malvagi. Si materializza anche nella corruttrice inattività dei buoni.

Martin Luther King

Se vedi la carità, vedi la Trinità.

( Sant'Agostino )

lunedì 14 ottobre 2013

Dom Jean-Baptiste Gustave Chautard

L’Anima di ogni Apostolato

Capitolo V

La vita interiore è oziosa?

– V –Risposta ad una prima obiezione:
la vita interiore è oziosa?

Questo libro è rivolto unicamente agli uomini d’azione animati dal desiderio
ardente di dedicarsi all’apostolato, ma esposti al pericolo di trascurare i mezzi necessari affinché la loro dedizione sia feconda per le anime senza diventare un dissolvente della loro vita interiore.

Non è nostro scopo stimolare i pretesi apostoli che hanno il culto del riposo,
né scuotere le anime illuse dall’egoismo, che fa loro vedere nell’ozio un
mezzo che favorisce la pietà, e neppure intendiamo smuovere l’indifferenza
di quegli indolenti ed addormentati che, nella speranza di ottenere vantaggi
ed onori, accettano di dare il loro nome a determinate opere purché non sia
turbata la loro pace ed il loro ideale di tranquillità: per costoro ci vorrebbe
ben altro libro.

Lasciamo ad altri l’incarico di far comprendere a questa categoria di apatici
la responsabilità d’una esistenza che Dio voleva attiva e che il demonio,
d’accordo con la natura, rende sterile per mancanza di attività e di zelo, e
torniamo a rivolgerci ai venerabili fratelli cui vogliamo riservare queste
pagine.

Nessun termine di paragone può riflettere la infinita intensità dell’attività
che si svolge in seno a Dio. La vita interiore del Padre è tale che genera una
Persona divina; dalla vita interiore del Padre e del Figlio procede lo Spirito
Santo.

La vita interiore comunicata agli Apostoli nel Cenacolo, accese subito in loro
la fiamma dello zelo.
Per chiunque abbia istruzione e non si sforzi di snaturarla, questa vita
interiore è un principio di abnegazione.
E se anche non si rivelasse con manifestazioni esteriori, la vita di preghiera è in sé ed intimamente una sorgente di attività che non può essere
paragonata a nessun’altra. 

Non vi è nulla di più falso del considerarla come una specie di oasi in cui ci si possa rifugiare per trascorrervi pigramente l’esistenza. Basta che essa sia la via più breve che porta al Regno dei Cieli, perché le si possano applicare in modo speciale quelle parole: 
«Il Regno dei Cieli lo si ottiene con la forza e sono i violenti a conquistarselo» (Mt. 11, 12).

Don Sebastiano Wyart, il quale aveva conosciuto il lavoro dell’asceta e le
lotte del militare, la fatica dello studio e le cure inerenti alla carica di superiore, soleva dire che vi sono tre specie di lavoro:

a) Il lavoro quasi esclusivamente fisico di coloro che esercitano un mestiere
manuale – di contadino, di artigiano, di soldato -; comunque si pensi, diceva,
questo lavoro è il meno duro di tutti.

b) Il lavoro intellettuale dello scienziato e del pensatore dediti alla ricerca,spesso ardua, della verità; il lavoro dello scrittore e del professore che fanno ogni sforzo per far penetrare questa verità in altre intelligenze;
 il lavoro del diplomatico, del negoziante, dell’ingegnere eccetera; gli sforzi mentali del generale in battaglia per prevedere, dirigere e decidere. Questo lavoro è in
se stesso molto più penoso del primo, come espresso dal noto proverbio: 
«la lama consuma il fodero».

c) Infine c’è il lavoro della vita interiore. Il santo sacerdote non esitava a
proclamarlo il più assorbente dei tre, se viene fatto sul serio. Ma è allo stesso tempo quello che ci dà in questa vita maggiori consolazioni ed è anche il più importante, perché forma non soltanto la professione dell’uomo, ma l’uomo stesso. Quanti si gloriano d’essere coraggiosi nei due primi generi di lavoro che portano alla fortuna e al successo, ma non sono altro che inerti, pigri e vili quando si tratta di lavorare per la virtù!

Sforzarsi continuamente per dominare se stesso e il proprio ambiente, per agire mirando in ogni cosa alla sola gloria di Dio, è l’ideale dell’uomo risoluto ad acquistare la vita interiore. Per realizzarlo, egli si sforza in ogni
circostanza di restare unito a Gesù Cristo, di tener sempre l’occhio fisso al
fine da raggiungere e di ponderare ogni cosa alla luce del Vangelo. Ripete
spesso con Sant’Ignazio:
 «Quod vadam et ad quid?» Intelligenza e volontà, memoria e sensibilità, immaginazione e sensi: tutto in lui è regolato da un principio. Ma a prezzo di quali sforzi arriva a tali risultati! Sia che si mortifichi o si conceda qualche onesto piacere, che pensi o realizzi, che
lavori o si riposi, che ami il bene o che provi avversione per il male, che
desìderi o tema, che accetti la gioia o la tristezza, che sia pieno di speranza
o di timore, indignato o pacifico, sempre e in tutte le cose egli si sforza di
tenere con tenacia il timone nella direzione del divino beneplacito. 

Nella preghiera e soprattutto vicino all’Eucaristia, egli s’isola ancor più
completamente da tutto quanto lo circonda, onde poter trattare con
l’invisibile Dio come se lo vedesse. Anche in mezzo alle fatiche apostoliche
egli mira a praticare quell’ideale che San Paolo ammirava in Mosé.

Avversità della vita o bufere delle passioni, nulla può sviarlo dalla linea di
condotta che si è imposto; se per caso s’indebolisce un momento, subito si
rialza per riprendere più vigorosamente la marcia in avanti.

Quale lavoro! E si comprende allora come già su questa terra Dio ricompensi
con gioie particolari colui che non indietreggia davanti allo sforzo richiesto
da questo lavoro.

«Oziosi, i veri religiosi? – concludeva don Wyart – Oziosi, i sacerdoti di vita
interiore e zelanti? Ma via! 
Vengano i mondani, anche quelli più affaccendati, a constatare se la loro fatica è paragonabile alla nostra!»

Chi non ne ha fatta l’esperienza? Alle volte si è tentati di preferire magari
lunghe ore di faticoso lavoro a una mezz’ora d’orazione ben fatta, ad
un’assistenza devota alla Messa, alla recita attenta dell’Ufficio. Il padre
Faber esprimeva il suo rammarico nel dover costatare che per certuni 
«il quarto d’ora che segue la Comunione è il più noioso della giornata». 
Se si tratta di fare un breve ritiro di tre giorni, quale ripugnanza si dimostra!
Sottrarsi per tre giorni alla vita facile (benché molto occupata) per vivere nel
soprannaturale e farlo penetrare, durante quel tempo di ritiro, in tutti i
particolari della propria vita; sforzare la mente perché esamini tutto, per
quel tempo, alla luce della fede; sforzare il proprio animo a dimenticare tutto per respirare solo Gesù e la sua Vita, rimanere faccia a faccia con se stessi per mettere a nudo le infermità e le debolezze dell’anima, gettandola nel crogiolo, senza commiserare le sue proteste: ecco una prospettiva che fa indietreggiare moltissime persone che magari sono pronte a qualunque fatica, finché si tratta d’impegnarsi in un’attività puramente naturale.

Ma se tre giorni appena di tale occupazione sembrano già così penosi, cosa proverà mai la nostra natura all’idea di sottoporre gradatamente una vita
intera al regime della vita interiore?

Senza dubbio, in questo lavoro di spogliamento, a svolgere il ruolo 
principale è quella grazia che rende soave il giogo e leggero il peso. Ma quanta materia di sforzo da compiere vi trova l’anima! Le costa sempre molto il rimettersi sulla retta via e ritornare al principio «la nostra patria sta
nei Cieli» (Fil. 3, 20). 

Lo spiega molto bene san Tommaso. L’uomo, dice, è posto tra le cose terrene e i beni spirituali nei quali si trova l’eterna
beatitudine. Quanto più aderisce alle prime, tanto più s’allontana dai
secondi. Accade come nella bilancia: se un piattello si abbassa, l’altro s’innalza in proporzione.

Orbene, la catastrofe del peccato originale che ha sconvolto l’economia del
nostro essere, ha reso penoso questo duplice movimento di adesione e di
allontanamento. Da allora, per poter ristabilire e mantenere, mediante la
vita interiore, l’ordine e l’equilibrio in questo «piccolo mondo» che è l’uomo,
ci vuole fatica, dolore e sacrificio. Si tratta di ricostruire un edificio rovinato
e preservarlo poi da nuova rovina.

Distogliere costantemente dalle cure terrene, per mezzo della vigilanza,
della rinunzia e della mortificazione, questo cuore aggravato da tutto il peso
della natura corrotta, «aggravati di cuore» (Ps. 4, 3); riformare il proprio
carattere specialmente su quei punti in cui è più dissimile dalla fisionomia
dell’anima di Nostro Signore 
– dissipazione, trasporti d’ira, compiacenza di sé e fuori di sé, manifestazioni di orgoglio o di naturalismo, come pure durezza, egoismo, mancanze di bontà, eccetera -; resistere alla brama del piacere presente e sensibile, con la speranza di una felicità spirituale che si potrà godere solo dopo una lunga attesa; distaccarsi da tutto ciò che può farci amare la vita presente; 
fare un olocausto senza riserve di tutto:
creature, desideri, cupidigie, concupiscenze, beni esterni, volontà e proprie vedute... quale còmpito!

Eppure questa non è che la parte purgativa della vita interiore. Dopo questa
lotta a corpo a corpo – lotta che faceva gemere san Paolo e che il padre de
Ravignan descriveva con queste parole: «Voi mi domandate cosa ho fatto
durante il noviziato? Eravamo in due; ne ho gettato uno dalla finestra e sono
rimasto solo» – dopo questa lotta senza tregua contro un nemico sempre
pronto a rinascere, è necessario proteggere dai minimi ritorni dello spirito
naturalistico un cuore che, purificato dalla penitenza, è ora consumato dal
desiderio di riparare gli oltraggi fatti a Dio; bisogna dispiegare tutta
l’energia per tenerlo unicamente attaccato alle bellezze invisibili delle virtù
da acquistarsi onde imitare quelle di Cristo; bisogna sforzarsi di conservare
anche nelle minime circostanze della vita un’assoluta fiducia nella Provvidenza: questa è la parte positiva della vita interiore. Chi non intravvede l’immensità di questo campo di lavoro che si presenta?

E’ un lavoro intimo, assiduo e costante; ma è proprio con questo lavoro che
l’anima acquista una meravigliosa facilità ed una stupefacente rapidità di
esecuzione nelle fatiche apostoliche. 
Solo la vita interiore possiede questo
segreto.

Le opere immense compiute, nonostante una salute precaria, da un Agostino, da un Giovanni Crisostomo, da un Bernardo, da un Tommaso d’Aquino, da un Vincenzo de’ Paoli, ci gettano nello stupore. 
Ma ancor più ci meraviglia vedere come questi uomini, pur essendo immersi in occupazioni quasi continue, sapevano mantenersi nella più costante unione con Dio. 

Nel dissetarsi più degli altri alla sorgente della Vita per mezzo della
contemplazione, questi santi ne attingevano le più vaste capacità di lavoro.

E’ pure questa la verità che uno dei nostri grandi Vescovi, sovraccarico di
lavoro, esprimeva ad un uomo di Stato, anch’egli oppresso dagli affari, il
quale gli domandava il segreto della sua continua serenità e dei mirabili
successi delle sue opere:
 «Mio caro amico, aggiungete a tutte le vostre occupazioni una mezz’ora di meditazione ogni mattina: non solo sbrigherete i vostri affari, ma troverete anche il tempo per realizzarne dei nuovi».

Infine noi sappiamo che il santo Re Luigi IX, nelle otto o nove ore che
abitualmente dedicava agli esercizi della vita interiore, trovava il segreto e
la forza di applicarsi agli affari dello Stato e al bene dei sudditi con tanta
sollecitudine che, per ammissione di un oratore socialista, mai, neppure ai
nostri tempi, fu fatto tanto in favore delle classi lavoratrici quanto lo è stato

sotto il regno di questo principe.