Dom Jean-Baptiste Gustave Chautard
L’Anima di ogni Apostolato
Capitolo
V
La
vita interiore è oziosa?
– V
–Risposta ad una prima obiezione:
la
vita interiore è oziosa?
Questo
libro è rivolto unicamente agli uomini d’azione animati dal desiderio
ardente
di dedicarsi all’apostolato, ma esposti al pericolo di trascurare i mezzi
necessari affinché la loro dedizione sia feconda per le anime senza diventare
un dissolvente della loro vita interiore.
Non è
nostro scopo stimolare i pretesi apostoli che hanno il culto del riposo,
né
scuotere le anime illuse dall’egoismo, che fa loro vedere nell’ozio un
mezzo
che favorisce la pietà, e neppure intendiamo smuovere l’indifferenza
di
quegli indolenti ed addormentati che, nella speranza di ottenere vantaggi
ed
onori, accettano di dare il loro nome a determinate opere purché non sia
turbata
la loro pace ed il loro ideale di tranquillità: per costoro ci vorrebbe
ben
altro libro.
Lasciamo
ad altri l’incarico di far comprendere a questa categoria di apatici
la
responsabilità d’una esistenza che Dio voleva attiva e che il demonio,
d’accordo
con la natura, rende sterile per mancanza di attività e di zelo, e
torniamo
a rivolgerci ai venerabili fratelli cui vogliamo riservare queste
pagine.
Nessun
termine di paragone può riflettere la infinita intensità dell’attività
che si
svolge in seno a Dio. La vita interiore del Padre è tale che genera una
Persona
divina; dalla vita interiore del Padre e del Figlio procede lo Spirito
Santo.
La
vita interiore comunicata agli Apostoli nel Cenacolo, accese subito in loro
la
fiamma dello zelo.
Per
chiunque abbia istruzione e non si sforzi di snaturarla, questa vita
interiore
è un principio di abnegazione.
E se
anche non si rivelasse con manifestazioni esteriori, la vita di preghiera è in
sé ed intimamente una sorgente di attività che non può essere
paragonata
a nessun’altra.
Non vi è nulla di più falso del considerarla come una
specie di oasi in cui ci si possa rifugiare per trascorrervi pigramente l’esistenza.
Basta che essa sia la via più breve che porta al Regno dei Cieli, perché
le si possano applicare in modo speciale quelle parole:
«Il Regno dei Cieli
lo si ottiene con la forza e sono i violenti a conquistarselo» (Mt. 11, 12).
Don
Sebastiano Wyart, il quale aveva conosciuto il lavoro dell’asceta e le
lotte
del militare, la fatica dello studio e le cure inerenti alla carica di superiore,
soleva dire che vi sono tre specie di lavoro:
a) Il
lavoro quasi esclusivamente fisico di coloro che esercitano un mestiere
manuale
– di contadino, di artigiano, di soldato -; comunque si pensi, diceva,
questo
lavoro è il meno duro di tutti.
b) Il
lavoro intellettuale dello scienziato e del pensatore dediti alla ricerca,spesso
ardua, della verità; il lavoro dello scrittore e del professore che fanno ogni
sforzo per far penetrare questa verità in altre intelligenze;
il lavoro del diplomatico,
del negoziante, dell’ingegnere eccetera; gli sforzi mentali del generale
in battaglia per prevedere, dirigere e decidere. Questo lavoro è in
se
stesso molto più penoso del primo, come espresso dal noto proverbio:
«la lama
consuma il fodero».
c)
Infine c’è il lavoro della vita interiore. Il santo sacerdote non esitava a
proclamarlo
il più assorbente dei tre, se viene fatto sul serio. Ma è allo stesso
tempo quello che ci dà in questa vita maggiori consolazioni ed è anche
il più importante, perché forma non soltanto la professione dell’uomo, ma
l’uomo stesso. Quanti si gloriano d’essere coraggiosi nei due primi generi
di lavoro che portano alla fortuna e al successo, ma non sono altro che
inerti, pigri e vili quando si tratta di lavorare per la virtù!
Sforzarsi
continuamente per dominare se stesso e il proprio ambiente, per agire
mirando in ogni cosa alla sola gloria di Dio, è l’ideale dell’uomo risoluto
ad acquistare la vita interiore. Per realizzarlo, egli si sforza in ogni
circostanza
di restare unito a Gesù Cristo, di tener sempre l’occhio fisso al
fine
da raggiungere e di ponderare ogni cosa alla luce del Vangelo. Ripete
spesso
con Sant’Ignazio:
«Quod vadam et ad quid?» Intelligenza e volontà, memoria
e sensibilità, immaginazione e sensi: tutto in lui è regolato da un principio.
Ma a prezzo di quali sforzi arriva a tali risultati! Sia che si mortifichi
o si conceda qualche onesto piacere, che pensi o realizzi, che
lavori
o si riposi, che ami il bene o che provi avversione per il male, che
desìderi
o tema, che accetti la gioia o la tristezza, che sia pieno di speranza
o di
timore, indignato o pacifico, sempre e in tutte le cose egli si sforza di
tenere
con tenacia il timone nella direzione del divino beneplacito.
Nella preghiera
e soprattutto vicino all’Eucaristia, egli s’isola ancor più
completamente
da tutto quanto lo circonda, onde poter trattare con
l’invisibile
Dio come se lo vedesse. Anche in mezzo alle fatiche apostoliche
egli
mira a praticare quell’ideale che San Paolo ammirava in Mosé.
Avversità
della vita o bufere delle passioni, nulla può sviarlo dalla linea di
condotta
che si è imposto; se per caso s’indebolisce un momento, subito si
rialza
per riprendere più vigorosamente la marcia in avanti.
Quale
lavoro! E si comprende allora come già su questa terra Dio ricompensi
con
gioie particolari colui che non indietreggia davanti allo sforzo richiesto
da
questo lavoro.
«Oziosi,
i veri religiosi? – concludeva don Wyart – Oziosi, i sacerdoti di vita
interiore
e zelanti? Ma via!
Vengano i mondani, anche quelli più affaccendati,
a constatare se la loro fatica è paragonabile alla nostra!»
Chi
non ne ha fatta l’esperienza? Alle volte si è tentati di preferire magari
lunghe
ore di faticoso lavoro a una mezz’ora d’orazione ben fatta, ad
un’assistenza
devota alla Messa, alla recita attenta dell’Ufficio. Il padre
Faber
esprimeva il suo rammarico nel dover costatare che per certuni
«il quarto
d’ora che segue la Comunione è il più noioso della giornata».
Se si tratta
di fare un breve ritiro di tre giorni, quale ripugnanza si dimostra!
Sottrarsi
per tre giorni alla vita facile (benché molto occupata) per vivere nel
soprannaturale
e farlo penetrare, durante quel tempo di ritiro, in tutti i
particolari
della propria vita; sforzare la mente perché esamini tutto, per
quel
tempo, alla luce della fede; sforzare il proprio animo a dimenticare tutto
per respirare solo Gesù e la sua Vita, rimanere faccia a faccia con se stessi
per mettere a nudo le infermità e le debolezze dell’anima, gettandola nel
crogiolo, senza commiserare le sue proteste: ecco una prospettiva che fa
indietreggiare moltissime persone che magari sono pronte a qualunque fatica,
finché si tratta d’impegnarsi in un’attività puramente naturale.
Ma se
tre giorni appena di tale occupazione sembrano già così penosi, cosa proverà
mai la nostra natura all’idea di sottoporre gradatamente una vita
intera
al regime della vita interiore?
Senza
dubbio, in questo lavoro di spogliamento, a svolgere il ruolo
principale
è quella grazia che rende soave il giogo e leggero il peso. Ma quanta
materia di sforzo da compiere vi trova l’anima! Le costa sempre molto
il rimettersi sulla retta via e ritornare al principio «la nostra patria sta
nei
Cieli» (Fil. 3, 20).
Lo spiega molto bene san Tommaso. L’uomo, dice, è posto
tra le cose terrene e i beni spirituali nei quali si trova l’eterna
beatitudine.
Quanto più aderisce alle prime, tanto più s’allontana dai
secondi.
Accade come nella bilancia: se un piattello si abbassa, l’altro s’innalza
in proporzione.
Orbene,
la catastrofe del peccato originale che ha sconvolto l’economia del
nostro
essere, ha reso penoso questo duplice movimento di adesione e di
allontanamento.
Da allora, per poter ristabilire e mantenere, mediante la
vita
interiore, l’ordine e l’equilibrio in questo «piccolo mondo» che è l’uomo,
ci
vuole fatica, dolore e sacrificio. Si tratta di ricostruire un edificio
rovinato
e
preservarlo poi da nuova rovina.
Distogliere
costantemente dalle cure terrene, per mezzo della vigilanza,
della
rinunzia e della mortificazione, questo cuore aggravato da tutto il peso
della
natura corrotta, «aggravati di cuore» (Ps. 4, 3); riformare il proprio
carattere
specialmente su quei punti in cui è più dissimile dalla fisionomia
dell’anima
di Nostro Signore
– dissipazione, trasporti d’ira, compiacenza di sé e
fuori di sé, manifestazioni di orgoglio o di naturalismo, come pure durezza,
egoismo, mancanze di bontà, eccetera -; resistere alla brama del piacere
presente e sensibile, con la speranza di una felicità spirituale che si potrà
godere solo dopo una lunga attesa; distaccarsi da tutto ciò che può farci
amare la vita presente;
fare un olocausto senza riserve di tutto:
creature,
desideri, cupidigie, concupiscenze, beni esterni, volontà e proprie vedute...
quale còmpito!
Eppure
questa non è che la parte purgativa della vita interiore. Dopo questa
lotta
a corpo a corpo – lotta che faceva gemere san Paolo e che il padre de
Ravignan
descriveva con queste parole: «Voi mi domandate cosa ho fatto
durante
il noviziato? Eravamo in due; ne ho gettato uno dalla finestra e sono
rimasto
solo» – dopo questa lotta senza tregua contro un nemico sempre
pronto
a rinascere, è necessario proteggere dai minimi ritorni dello spirito
naturalistico
un cuore che, purificato dalla penitenza, è ora consumato dal
desiderio
di riparare gli oltraggi fatti a Dio; bisogna dispiegare tutta
l’energia
per tenerlo unicamente attaccato alle bellezze invisibili delle virtù
da
acquistarsi onde imitare quelle di Cristo; bisogna sforzarsi di conservare
anche
nelle minime circostanze della vita un’assoluta fiducia nella Provvidenza:
questa è la parte positiva della vita interiore. Chi non intravvede
l’immensità di questo campo di lavoro che si presenta?
E’ un
lavoro intimo, assiduo e costante; ma è proprio con questo lavoro che
l’anima
acquista una meravigliosa facilità ed una stupefacente rapidità di
esecuzione
nelle fatiche apostoliche.
Solo la vita interiore possiede questo
segreto.
Le
opere immense compiute, nonostante una salute precaria, da un Agostino,
da un Giovanni Crisostomo, da un Bernardo, da un Tommaso d’Aquino,
da un Vincenzo de’ Paoli, ci gettano nello stupore.
Ma ancor più ci meraviglia
vedere come questi uomini, pur essendo immersi in occupazioni quasi
continue, sapevano mantenersi nella più costante unione con Dio.
Nel dissetarsi
più degli altri alla sorgente della Vita per mezzo della
contemplazione,
questi santi ne attingevano le più vaste capacità di lavoro.
E’
pure questa la verità che uno dei nostri grandi Vescovi, sovraccarico di
lavoro,
esprimeva ad un uomo di Stato, anch’egli oppresso dagli affari, il
quale
gli domandava il segreto della sua continua serenità e dei mirabili
successi
delle sue opere:
«Mio caro amico, aggiungete a tutte le vostre occupazioni
una mezz’ora di meditazione ogni mattina: non solo sbrigherete i
vostri affari, ma troverete anche il tempo per realizzarne dei nuovi».
Infine
noi sappiamo che il santo Re Luigi IX, nelle otto o nove ore che
abitualmente
dedicava agli esercizi della vita interiore, trovava il segreto e
la
forza di applicarsi agli affari dello Stato e al bene dei sudditi con tanta
sollecitudine
che, per ammissione di un oratore socialista, mai, neppure ai
nostri
tempi, fu fatto tanto in favore delle classi lavoratrici quanto lo è stato
sotto
il regno di questo principe.